Elena Del Fante è psicologa digitale, Videogame Therapist, divulgatrice ed esperta nella ricerca neuroscientifica per lo sviluppo di videogiochi e training per il potenziamento cognitivo. Founder di Play Better e campionessa di Call of Duty, nelle ultime settimane ha pubblicato il libro “Video Game Therapy” edizioni UTET Università.
Giocare è una cosa seria e può diventare una preziosa risorsa nel complesso percorso verso il benessere. Quest’aura costruttiva sembra non appartenere al videogiocare che, come pratica culturale, porta con sé molti pregiudizi. Il libro presenta un innovativo approccio: la Video Game Therapy. Abbiamo voluto conoscere meglio la sua autrice Elena Del Fante e carpire qualche curiosità in più.
Intervista
Come è nata l’idea di scrivere un manuale sulla Video Game Therapy? È stato un processo graduale o c’è stato un momento preciso in cui hai detto “questo lo voglio scrivere”?
“L’idea di scrivere un libro è stata sempre parte dei miei obiettivi, ma il progetto di questo manuale è maturato davvero quando ho iniziato a dedicarmi alla ricerca neuroscientifica sugli effetti positivi dei videogiochi. Nel momento in cui ho abbracciato il modello della Video Game Therapy, intervento psicologico ideato da Francesco Bocci, sempre di più risultava necessario mettere nero su bianco le evidenze scientifiche su cui reggere un modello clinico d’intervento che psicologi, psichiatri e tecnici della riabilitazione possano utilizzare per migliorare il benessere delle persone.
Il manuale Video Game Therapy: Teoria e Pratica Clinica è il frutto della collaborazione con Francesco Bocci, Ambra Ferrari, Marcello Sarini e Alessandra Micalizzi. Ognuno ha contribuito con competenze e visioni che stimo profondamente, condividendo l’impegno verso una pratica terapeutica che considera il videogioco non solo come svago, ma come una risorsa in grado di influenzare positivamente la salute mentale e il percorso di crescita personale”.
Nel tuo annuncio sui social parli di alleati che ti hanno supportato lungo il cammino. Qual è stato l’incontro più sorprendente o inaspettato che hai fatto durante la stesura del testo?
“Uso il termine alleati perché nel mio percorso professionale – segnato, come quello di molti, anche da sfide e momenti difficili – ho compreso il valore impagabile della collaborazione e dell’unione di intenti. La Video Game Therapy e l’associazione Play Better, di cui sono founder, portano avanti questo principio che è comune alla Psicologia: il gruppo è più della somma dei singoli individui.
È una visione che vede ciascun contributo come essenziale e in cui l’obiettivo non è mai esclusivamente individuale, ma è quello di promuovere il videogioco come una potente forma d’arte e un mezzo di trasformazione, educazione e cura. Forse, però, l’incontro più sorprendente durante la stesura del manuale è stato con me stessa. Mi ha ricordato quanto ami la scrittura, un’attività che negli anni avevo trascurato, ma che si è rivelata, ancora una volta, un veicolo di crescita e riflessione, proprio come il videogioco stesso”.
Un concetto che potrebbe risultare nuovo per molti. Come definiresti questa disciplina a qualcuno che non ha mai sentito parlare di terapie legate ai videogiochi?
“La Video Game Therapy è una metodologia che integra diverse tecniche psicologiche e utilizza videogiochi commerciali per supportare processi terapeutici, emotivi e cognitivi. Non si tratta solo di giocare all’interno delle sessioni, ma di integrare attività videoludiche in modo strategico e personalizzato per migliorare abilità come la gestione delle emozioni, come il fallimento, la frustrazione o la tristezza, ma anche migliorare i processi cognitivi come l’attenzione, la memoria o di flessibilità.
Per esempio, con la meccanica del game-over possiamo aiutare a gestire il fallimento e lo stress, mentre con videogiochi rts (real time strategy) stimolare il pensiero strategico. L’obiettivo è quello di creare un contesto di apprendimento, ma anche di conforto, in cui le persone possano esplorare e migliorare aspetti della propria vita e personalità”.
Qual è il videogame che consideri più terapeutico in assoluto e perché?
“Dire quale videogioco sia il più terapeutico è complesso, poiché l’efficacia dipende da una dinamica relazionale unica che si instaura tra il gioco e l’utente, i suoi desideri, i suoi bisogni e la sua storia di vita. Tuttavia, quando si parla di potenziamento cognitivo – ovvero di un intervento volto a migliorare abilità come attenzione, memoria, problem-solving e velocità di reazione – i videogiochi sparatutto hanno dimostrato un forte potenziale. Questi giochi, spesso considerati poco educativi o violenti, come Halo, Call of Duty, o Counter-Strike: Global Offensive, trovano supporto nella letteratura scientifica per il loro contributo al miglioramento delle funzioni cognitive, rendendoli strumenti utili anche per affrontare disturbi come l’ADHD e i Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) come dislessia e discalculia.
Tuttavia, se dovessi scegliere un titolo che rappresenti simbolicamente il processo terapeutico e l’elaborazione di esperienze profonde come il lutto e la trasformazione emotiva, menzionerei Gris. Questo gioco, ormai molto noto, si configura come una potente metafora di crescita e rinascita: invita il giocatore a esplorare un mondo emotivo devastato e a ricostruirlo, un pezzo alla volta, accogliendo ferite e conflitti interiori.
È come una guida simbolica: per colorare la propria realtà bisogna prima affrontare il proprio bambino interiore, curare le ferite più profonde e lasciare spazio alla guarigione. Questo processo simboleggia in modo potente ciò che accade in terapia e riflette il percorso individuale che ciascuno di noi può intraprendere”.
Spesso i videogiochi sono criticati per i loro effetti negativi, soprattutto su giovani e bambini. Come affronti questo pregiudizio?
“Per fortuna le cose sono cambiate e continuano a cambiare, anche se occorre ancora intervenire inerente a certe tematiche, ecco perché svolgo attività di media education nelle scuole, con le famiglie e altri enti e comunità. Nonostante un gap intergenerazionale ancora importante, che inevitabilmente limita la consapevolezza sui benefici psicosocioeducativi dei videogiochi, è indubbio notare una maggior propensione e interesse a conoscere.
Per questo condivido con il pubblico, anche su invito a manifestazioni varie nell’ambito dell’educazione o del gaming, ricerche scientifiche su aspetti come l’assenza di associazione con comportamenti violenti o rischio di dipendenza dal semplice giocare ai videogiochi. Mi occupo, con diverse realtà, ad esempio con Gamers Arena attraverso iniziative come Video Games Are Good, di promuovere un uso consapevole ed etico del videogioco”.
Come pensi possa cambiare l’approccio nei prossimi cinque o dieci anni?
“I videogiochi sono e saranno sempre più considerati alla stregua di altre arti, un’evoluzione sostenuta anche dall’aumento dell’attenzione su temi psicologici, sociali e culturali, nonché dalla diffusione degli Indie games e dalla crescita degli esports. Il binomio tra gaming e benessere si prospetta come un’area di sviluppo sempre più importante e, in futuro, potrebbe trovare una collocazione stabile nei contesti scolastici e aziendali, promuovendo il valore dei videogiochi come strumenti educativi e di crescita personale.
Tuttavia, è essenziale evitare un approccio semplicistico, che porterebbe a credere che giocare al titolo X risolva la depressione. I videogiochi possono certamente offrire benefici in differenti ambiti ma, affinché abbiano un impatto terapeutico effettivo, è fondamentale il supporto di un professionista qualificato. La Video Game Therapy, come ogni altra forma di intervento psicologico, richiede esperienza, conoscenza e un approccio mirato, garantendo che il percorso sia adeguato alle esigenze specifiche di ciascun individuo”.
Anche tu sei ambassador di Women in Games, un pensiero a riguardo?
“Come donna, gamer, esportiva, psicologa e ricercatrice, abbraccio pienamente la mission di Women in Games. Ringrazio in particolare la founder, Micaela Romanini, che da anni promuove una visione equa non solo per le videogiocatrici, ma per tutte le donne impegnate nel settore del tech e del gaming, nonché del benessere mentale.
Ci sono alcuni interessi comuni che speriamo di riuscire ad approfondire, come il contesto dell’esport, che rimane, per le donne, un ambito con scarse tutele e limitate opportunità, se non limitato al team al femminile. In quanto studiosa del tema, non vi sono differenze di genere neuroscientifiche che giustifichino l’esistenza di leghe separate: mio interesse sarebbe arrivare davvero a questa idea condivisa e cessare, così, la necessità di costruire team e leghe solo femminili. Questa visione inclusiva è cruciale per creare spazi sicuri e riconoscere il valore del gaming, a prescindere dal genere di appartenenza”.
Infine, immagina di essere in una partita del tuo videogioco preferito. Quale sarebbe il tuo potere speciale e come lo useresti per promuovere la Video Game Therapy nel mondo reale?
“Grazie per la domanda, davvero. Il mio videogioco preferito, per un’infinità di motivi, è sicuramente Halo, un titolo che ha segnato la mia passione per il gaming e che mi ha anche portato a diventare Admin della community di Halo Italia. Tra i diversi power-up disponibili, scegliere senza dubbio uno dei più recenti, il rampino (Grappleshot).
Il rampino rappresenta per me un potente simbolo di connessione. Lo userei per avvicinare le persone in difficoltà, permettendomi di stabilire legami significativi e superare le distanze, sia fisiche che emotive. Immagina di poter afferrare qualcuno che si sente isolato e portarlo verso un ambiente di supporto e accettazione. In questo modo, il rampino non sarebbe solo uno strumento di gioco, ma diventerebbe un mezzo per rendere accessibile il benessere a chiunque, proprio come vuole essere la Video Game Therapy”.
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Foto credits Elena Del Fante